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Night Fever. Le discoteche e i locali notturni dagli anni ’60 ad oggi
Il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci presenta “Night Fever. Designing Club Culture 1960 – Today“, una mostra prodotta dal Vitra Design Museum e ADAM – Brussels Design Museum che arriva al Pecci come unica sede italiana.
Un progetto espositivo poliedrico e multidisciplinare, con un focus specifico su architettura e design che indaga le discoteche e i locali notturni dagli anni ’60 ad oggi.
I locali notturni e le discoteche sono stati epicentri di cultura contemporanea.
Nel corso del ventesimo secolo hanno messo in discussione i codici prestabiliti del divertimento e dello stare insieme e hanno permesso di sperimentare stili di vita alternativi.
Al loro interno si incontrano le manifestazioni più d’avanguardia del design, della grafica e della moda, luci, suoni e effetti speciali per creare un moderno Gesamtkunstwerk.
“Night Fever. Designing Club Culture 1960 – Today” esamina la storia del clubbing, con esempi che vanno dai locali notturni italiani degli anni Sessanta creati dai membri del gruppo dei Radicali al leggendario Studio 54 di Ian Schrager a New York (1977-80); da Les Bains Douches di Philippe Starck a Parigi (1978) al più recente Double Club di Londra, ideato dall’artista tedesco Carsten Höller per la Fondazione Prada.
Con film, fotografie d’epoca, manifesti, abiti e opere d’arte, la mostra comprende anche una serie di installazioni luminose e sonore che accompagneranno il visitatore in un viaggio affascinante attraverso il mondo del glamour, delle sottoculture e della ricerca nella notte che non finisce mai.
La mostra segue un percorso cronologico che prende avvio con le discoteche degli anni Sessanta, che per la prima volta trasformano il ballo in un rito collettivo da officiare in un mondo fantastico fatto di luci, suoni e colori in cui immergersi.
Vi sono i luoghi della subcultura newyorchese, quali l’Electric Circus (1967), progettato dall’architetto Charles Forberg e dal famoso studio Chermayeff & Geismar, che con il suo carattere multidisciplinare influenzò anche i club europei, tra cui lo Space Electronic a Firenze (1969) concepito dal collettivo Gruppo 9999, una delle discoteche nate dalla collaborazione con i protagonisti dell’Architettura Radicale italiana.
Tra questi si annoverava anche il Piper (1966) di Torino, lo spazio multifunzionale concepito da Giorgio Ceretti, Pietro Derossi e Riccardo Rosso, che con i suoi mobili modulari non solo faceva ballare, ma si prestava ottimamente anche per concerti, happening e teatro sperimentale.
Il Bamba Issa (1969), una discoteca toscana sulla spiaggia di Forte dei Marmi ideata dal Gruppo UFO, era essa stessa un teatro dell’arte: qui tutto l’interior fungeva da palcoscenico.
Nei tre anni di esistenza, ogni estate veniva trasformata secondo un nuovo tema.
Negli anni Settanta, con l’ascesa della disco music la cultura dei club ebbe nuovo impulso.
Il dancefloor offriva un palcoscenico per performance individuali e collettive, creatori di moda come Stephen Burrows o Halston fornivano gli abiti giusti per uno stile sfavillante.
Lo Studio 54, aperto a New York da Ian Schrager e Steve Rubell nel 1977 e con gli arredi firmati dall’architetto Scott Romley e dal designer d’interni Ron Doud, divenne un luogo d’incontro molto amato dagli idoli del culto delle celebrità, allora ai primordi.
Soltanto due anni dopo, il film Saturday Night Fever segnò il culmine della commercializzazione del movimento disco.
È bene ricordare però che l’anima della disco music non è mainstream: nata in club e bar frequentati dalla comunità gay e afro ma anche latina, marginalizzate dalla maggioranza bianca e eterosessuale, si sviluppò in modo assolutamente politicizzato e con una forte connotazione sociale come un fenomeno underground, poi traghettato attraverso locali come il Paradise Garage – gay club che per primo rompe le regole della discriminazione razziale – verso la cultura di massa.
Non a caso, i contro-movimenti come il Disco Demolition Night di Chicago (1979) diedero voce a tendenze reazionarie, in parte caratterizzate da omofobia e razzismo.
Contemporaneamente, discoteche come il Mudd Club (1978) o l’Area (1978) di New York, fondendo vita notturna e arte, offrivano nuove opportunità ai giovani artisti emergenti: fu in questo scenario che ebbero inizio le carriere di Keith Haring e Jean-Michel Basquiat.
Intanto, nei club londinesi come Blitz e Taboo, con i New Romantics nacquero un nuovo stile musica e una nuova moda.
Tra i clienti più affezionati vi erano i gestori del Kinky Gerlinky, Michael e Gerlinde Costiff, e la stilista Vivienne Westwood.
A Manchester l’architetto e designer Ben Kelly progettò una cattedrale del rave postindustriale, Haçienda (1982), cofinanziato, tra l’altro, dalla band britannica New Order.
Da qui l’acid house, un sottogenere della musica house, partì alla conquista della Gran Bretagna.
House e techno, nate nei club di Chicago e Detroit, possono essere indicati come gli ultimi due grandi movimenti della dance music, che hanno caratterizzato un’intera generazione di club e raver.
Lo stesso vale anche per la scena berlinese dei primi anni Novanta, dove discoteche come Tresor (1991) diedero nuova vita a spazi abbandonati e deteriorati, scoperti dopo la caduta del muro.
Anche il Berghain, aperto nel 2004 in una vecchia centrale termoelettrica, dimostra che una scena disco vivace si sviluppa soprattutto dove ci sono gli spazi urbani necessari.
Dagli anni 2000, lo sviluppo della club culture si è fatto più complesso: da un lato è in forte ripresa e in continua espansione, appropriata da marchi e festival di musica globali, dall’altro, molti club sono spinti fuori dai contesti urbani o sopravvivono come tristi monumenti di un passato edonistico.
Nel frattempo è cresciuta una nuova generazione di architetti che si confronta nuovamente con la tipologia del locale notturno: tra questi vi è lo studio olandese OMA, sotto l’egida di Rem Koolhaas, che ha proposto un nuovo concept per una delle discoteche più famose del mondo, il Ministry of Sound II di Londra, quintessenza del club del Ventunesimo secolo.
Un altro esempio è lo studio di architettura e design Akoaki, che con il suo Mothership, una consolle da DJ mobile, concentra l’attenzione sulla ricca storia del clubbing della sua Detroit.
A completare la struttura cronologica della mostra, Konstantin Grcic, che ha curato l’exhibition design, e Matthias Singer, che si è occupato del lighting, hanno elaborato un’installazione musicale e luminosa, una silent disco che catapulta i visitatori nella movimentata storia della club culture.
Una raccolta selezionata di copertine di dischi, tra cui i disegni di Peter Saville per Factory Records o la copertina programmatica dell’album Nightclubbing di Grace Jones, sottolinea infine le importanti relazioni tra musica e grafica nella storia delle discoteche dal 1960 a oggi.
Artisti, designer e architetti rappresentati (selezione): François Dallegret, Gruppo 9999, Halston, Keith Haring, Arata Isozaki, Grace Jones, Ben Kelly, Bernard Khoury, Mark Leckey, Miu Miu, OMA (Office for Metropolitan Architecture), Peter Saville, Studio65, Roger Tallon, Andy Warhol
Club rappresentati (selezione): The Electric Circus, New York 1967; Space Electronic, Firenze 1969; Il Grifoncino, Bolzano 1969; Studio 54, New York 1977; Paradise Garage, New York 1977; Le Palace, Parigi 1978; The Saint, New York 1980; The Haçienda, Manchester, 1982; Area, New York 1983; Palladium, New York 1985; Tresor, Berlino 1991; B018, Beirut 1998; Berghain, Berlino, 2004
Curatori: Jochen Eisenbrand, capo-curatore; Meike Wolfschlag e Nina Steinmüller, assistenti curatrici (Vitra Design Museum) | Catharine Rossi, co-curatrice (Kingston University London) | Katarina Serulus, co-curatrice (ADAM – Brussels Design Museum)
“Night Fever. Designing Club Culture 1960 – Today”
Inaugurazione: giovedì 6 giugno, ore 19:00
7 giugno – 6 ottobre 2019
Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci
Viale della Repubblica, 277
Prato
centropecci.it